Nell’arco di un sabato qualunque, solo con se stesso, un pensionato romano qualunque “si sente di colpo abitato dal presente, dal corpo tornato suo”, e allora emerge dal pozzo di decenni di tranquille rinunce e torna - forse solo finché dura l’illusione di una notte - ad essere il ribelle che fu in gioventù.
Salvo che ora - pare ad Adriano, che forse, senza giungere mai ad esserne cosciente, una rivoluzione l’ha vissuta davvero, ed anzi in un certo senso, dalla rivoluzione è stato assorbito e reso complice: proprio lì, nella prima linea alienante di quella trincea che è stata per lui lo sportello delle poste - il senso, la direzione di quest’essere ribelle non possono più essere gli stessi: se nei decenni dell’immediato dopoguerra ribellarsi significava rifare un mondo sulla base di principi e ideali nuovi, oggi, dall’alto di questo mondo in apparenza rifatto, succede che “persino il futuro sembra sia passato come una stella cadente”. Ed ecco allora che l’urgenza è piuttosto quella di remare contro l’amnesia, o più esattamente contro un’ideologia (pseudo-)progressista che assume come ovvia ed indiscutibile l’equivalenza fra cambiamento e progresso.
Se ci fosse un bambino in casa, parlerebbe del passato, di come stavano le cose quando lui era giovane. Direbbe che la sua è stata la generazione dei grandi rifiuti. La generazione delle idee, dei cortei e dei proiettili. Una generazione in bilico fra l’età dei destini collettivi e l’era dell’individualismo sfrenato. E la prima (ma allora non lo sapeva nessuno) a negare il futuro alle altre generazioni: quelle precedenti ovviamente, ma nche quelle successive.
L'Adriano di Christophe Palomar, che è poi il ritratto intimo di chi nasce, vive e muore nell'orizzonte angusto (ma proprio per questo verace: "l'unica ricchezza del mondo è casa", del resto) di un quartiere sospeso fra passato e presente, diventa così l'emblema dell'uomo contemporaneo; per lo meno di quell'uomo raggiunto a tratti dal sospetto di essere stato tradito e vinto da un progresso che ha finito per manifestare tutta l'incomprensibile e tecnocratica impersonalità ammantata dalla promessa di benessere - un progresso che non avrebbe saputo valicare i limiti di un benestare al cui cospetto si ha l'impressione (nuovamente) di essere insignificanti. Il flusso dei ricordi, che l'autore dipinge con una leggerezza partecipe e parsimoniosa, dissolve la vicenda particolare di Adriano nelle inquietudini che accompagnano il tramonto di un'intera generazione: quella "dei grandi rifiuti", "delle idee, dei cortei e dei proiettili", ma anche quella che visse "in bilico fra l'età dei destini collettivi e l'era dell'individualismo sfrenato".
Alberto Asero
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