Se c'è qualcosa di interessante nel detto secondo cui l'Italia conta più scrittori che lettori è che nel giro di otto parole vengono sommariamente liquidati, senza nulla concedere ad un anche solo fugace “assaggio” di ciò di cui si sta parlando, anzitutto lo sforzo di tanti (più di quanti si creda) validissimi narratori la cui unica colpa è di non essere mai stati iconizzati in questo o quel tabernacolo dell'editoria dei grandi numeri, poi quel diffuso e sentitissimo bisogno di novità di un pubblico accomunato dal desiderio di volti nuovi in tv, di idee nuove in parlamento e, perché no, di storie nuove sul comodino.
Con buona pace per le migliori intenzioni, questo bisogno di “nuovo” e di “indipendente” finisce per seguire la scia dell'interessato consiglio di più o meno attendibili classifiche di vendita che non solo ci hanno abituato a qualche (tutt'altro che infrequente) scoraggiante delusione, ma che per definizione sono quanto di meno adeguato vi sia a favorire la desiderata pluralità delle voci, dei punti di vista, degli stili. Così, sarà pur vero che in Italia ci sono più scrittori che lettori, ma i primi, del tutto indipendentemente dal loro reale talento e fino a che non trovano il modo di infilarsi in qualche tabernacolo dell'editoria dei grandi numeri, sono imbavagliati da una domanda che, al contempo, li sollecita e li ignora.
In altri mercati – per esempio l'alimentare o l'abbigliamento, ma anche in taluni segmenti d'ambito culturale come, in parte, la musica o la pittura – la diversità costituisce da tempo un valore economico concreto, al punto che il consumatore, d'abitudine attento al prezzo ed anzi proprio per questo, è acquirente di manifatture variamente “tipiche” di cui, spesso, ha modo di entrare in contatto più o meno direttamente con il produttore e con l'ambiente d'origine. Questo senso di relativa vicinanza, con la possibilità che implica di vivere “narrativamente” il prodotto e di entrare, per il suo tramite, ad esperire l'angolo di mondo da cui proviene e che esprime, disegna un'ampia parte del valore aggiunto del prodotto stesso, persino più importante delle specifiche tecniche e merceologiche attinenti la materialità dell'oggetto. Si può dire che esperienze di valore simili si producano nel mondo del libro? Se no, vuol forse dire che quello del libro è un mondo in ampia misura omologante?
È una consolidata nozione del marketing quella secondo cui un prodotto ha sempre un valore d'uso ed un valore di relazione (percepito): la griffe, nell'abbigliamento extra-sartoriale, non garantisce necessariamente una produzione qualitativamente superiore rispetto a quella di altri contesti industriali meno blasonati (e meno costosi), ma “veste” l'acquirente/portatore di un significato di riconoscibilità sociale che è il principale movente all'acquisto. Vestire quel particolare abito, realizzato con quel particolare tessuto, da quel particolare produttore che si è potuto conoscere e “scoprire”, non solo non significa perdere un'opportunità di riconoscibilità sociale, ma al contrario offre la possibilità di punteggiare il proprio entourage con, appunto, qualcosa di particolare, singolare, individuale; significa essere ben radicati nel mondo senza al contempo esserne assorbiti e dominati o, invertendo l'ordine dei fattori, essere individui senza con ciò essere per forza eccentrici.
Se la griffe è una delle cure più a buon mercato al male dell'anonimato, nella produzione manifatturiera, dove per definizione non c'è alcuna griffe, a puntellare il valore percepito di relazione intervengono fattori oggi talmente importanti da designare una vera e propria “tendenza” parallela all'anti-griffe (piccola notazione logica: l'anti-griffe è ipso facto una griffe): l'assoluta particolarità del prodotto, la sua non agevole reperibilità commerciale, la conoscenza della provenienza delle materie prime, il contatto con il produttore, la scelta non governata da alcun medium pubblicitario, non sono che un esempio di punti di valore aggiunto percepito.
Ecco, è proprio (e curiosamente) in questo scenario di diffuso e condiviso bisogno di de-massificazione che il mercato del libro si mostra alquanto impermeabile al bisogno di cercare, esprimendola, una propria personale via all'essere nel mondo. Laddove presentarsi ad una festa con addosso un capo o un accessorio evidentemente manifatturiero può costituire un interessante fattore di socializzazione, intrattenere amici e colleghi su quel meraviglioso libro “non griffato” che si è letto può voler dire esporsi ad imbarazzanti silenzi in risposta: il “non lo conosco”, come risposta a quanto si sta dicendo intorno ad un libro, segna in genere ed inappellabilmente lo stagnare di una conversazione per mancanza di un terreno comune e condiviso, quando non addirittura per diffidenza.
Il problema è promuovere adeguatamente i libri, si dirà. Certo, ma attenzione: la promozione di un prodotto culturale costituisce di per sé un'azione culturale. Promuovere un libro senza promuovere l'idea della diversità è giocoforza fallimentare. Ciò che raramente solca le annose discussioni sulla promozione dei libri, e che invece forse è proprio la chiave di volta per capire in che direzione stiamo andando e quale strada è meglio attrezzarsi per percorrere, è un'analisi critica e spassionata intorno a quella apparente contraddizione pragmatica fra bisogno di rinnovamento e tendenza alla stagnazione da cui siamo partiti.
Il pur abissale (e disastroso) divario distributivo fra grande e piccola editoria, di norma additato come causa principale della mancanza di sfogo di quest'ultima, e la difficile accessibilità dei piccoli marchi ad economie di scala, spiegano come mai, in libreria, l'esito del confronto sia ampiamente predeterminato e sia molto spesso improponibile persino pensare di ritagliare una nicchia dotata di identità propria, ma non spiegano - per esempio - perché a Torino, nella fiera più importante d'Italia, la "griffe" vinca ancora sul sarto.
Alberto Asero
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